Spesso, in ambito pubblicitario, si sente pronunciare la frase “l’importante è che se ne parli”, lasciando intendere che la qualità del contenuto non è importante. Se un contenuto di bassa qualità fa parlare di sé, diventa un contenuto utile. Ma il web ragiona davvero così? No, il web parla, legge, ascolta, commenta ma non dimentica un contenuto di pessima qualità.
L’importanza della pubblicità
L’obiettivo della pubblicità è riuscire ad entrare nel cuore e nella memoria del consumatore, al fine di condizionare le sue scelte d’acquisto. Per questo motivo, sul web, tutti coloro che scelgono di fare pubblicità sperano che questa diventi virale. La viralità aiuta il brand ad aumentare la propria awareness e a diffondere l’affidabilità e la qualità del prodotto promosso. Negli ultimi anni, la viralità viene ricercata attraverso l’utilizzo di contenuti che non puntano direttamente alla vendita di un prodotto ma alla trasmissione di valori, così da migliorare il legame che unisce il cliente al brand. A volte, però, sia la vendita del prodotto sia la trasmissione dei valori passano in secondo piano, lasciando spazio ad un modo poco efficace di fare pubblicità. Al centro della scena, il Bad Advertising: pubblicità di gusto discutibile che serve solo ed esclusivamente a far parlare di sé.
Cercare effetti positivi in pubblicità negative: è possibile?
Sempre più brand sperano di ottenere effetti e conseguenze positive facendo pubblicità negativa. Ma è davvero possibile ed efficace adottare questo metodo per raggiungere quel tipo di obiettivo? Purtroppo no. Infatti, quando si parla di Bad Advertising ci si riferisce a pubblicità che sfiorano con poco rispetto e tatto alcuni argomenti sensibili quali razzismo, omofobia, maschilismo e stereotipi errati, da tempo diffusi nella società. Ogni marketer ha il proprio stile ma chi fa pubblicità non dovrebbe perdere di vista un concetto fondamentale: la qualità del contenuto veicolato. È vero che il Bad Advertising, come l’advertising, fa parlare del brand ma è necessario capire come se ne parla. Non vale la pena fare cattiva pubblicità solo per provocare temporanei chiacchiericci, soprattutto perché, alla fine, la rete sa e ricorda. Il rischio conseguente è quello di lasciare un ricordo sbagliato e negativo ai potenziali clienti.
Due esempi di Bad Advertising
Il primo esempio di pubblicità negativa è uno spot, ritenuto fortemente razzista, girato in una lavanderia cinese. Qui, una ragazza conosce un uomo di colore, sembra piacerle ma prima decide di “infilarlo” in lavatrice con un prodotto per sbiancare i capi. Al termine del lavaggio, il ragazzo di colore si trasforma in un ragazzo cinese del quale lei si innamora perdutamente. Bella l’idea di promuovere il detersivo. Per niente bella l’idea di cambiare la razza a qualcuno per innamorarsene.
Il secondo spot-esempio (negativo) è quello della Pepsi con protagonista Kendall Jenner. Il commercial è stato girato in America, in un paese pervaso dalle proteste dei cittadini con l’obiettivo comune di fermare le violenze e ristabilire un clima di pace. La modella entra in scena, posizionandosi a capo della manifestazione. Al suo arrivo tutto cambia: le basta, infatti, aprire una lattina della bibita in questione per conquistare i poliziotti e ottenere ciò che desidera. La compagnia è stata accusata di strumentalizzare i movimenti sociali e banalizzare le proteste. A seguito di queste critiche, il video è stato rimosso dalla rete.